IL VIAGGIO
L’odore, impercettibile all’uomo, invadeva la stanza, era l’inizio di un lungo viaggio, la continuazione di un vecchio cammino. Era d’aprile, di notte, una notte di Resurrezione. Non c’eri o c’eri? Ho ascoltato tante volte il tuo racconto, seduta accanto al letto, accovacciata sulla poltroncina di velluto verde. Le parole ti illuminavano il volto, ricordavi e piano mi facevi mille raccomandazioni. Eri una studentessa dell’Istituto magistrale, indossavi la divisa da Giovane Italiana, andavi ogni pomeriggio a doposcuola: impaziente di uscire, ti preparavi con cura, ti sistemavi il cappello sui riccioli biondi, passando due o tre volte davanti allo specchio appoggiato all’armadio. Ti piaceva farti ammirare dalle persone che incontravi per strada e dai tuoi compagni. Uno di questi aveva nascosto fra i tuoi libri un biglietto d’amore, sei arrossita quando ti ha chiesto una risposta. “L’avrò perso”, gli hai detto, “ieri mi sono caduti i libri, non ho trovato nessun messaggio, sarà volato via.” Il suo sguardo deluso, la tua sorpresa nel ritrovarlo identico fra gli appunti una volta tornata a casa. Lo so dove li hai conservati, nella scatola di legno nascosta in fondo al baule. Mi dicevi con orgoglio che era stata una passione durata due anni, nonostante i calzoni ancora corti di lui, nonostante l’avvento brutale della guerra. Interrompevi le tue parole per colpa di una telefonata, mi sorprendevi qualche giorno dopo riprendendo esattamente da dove avevi smesso. Eri una impiegata del Comune addetta a distribuire le tessere per ritirare gli alimenti di prima necessità, vivevi il dopoguerra nella solitudine lasciata dalle bombe che avevano seppellito la tua famiglia. L’avevi rivisto fra la gente che faceva la fila, emozionata gli avevi dato due tessere anziché una. Ti ha ricompensato con un sacchetto di nespole e con una promessa d’amore eterno. Il tuo viaggio stava lì, ti attendeva, per la prima volta senza paura, senza sospiri, con tranquillità. Non parlavi più, per quanti giorni? Solo qualche ora, poi alitava forte il vento che tornava a scuotere la tenda. C’eri. Raccontavi lentamente: “La guerra aveva cambiato le nostre vite radicalmente, suo padre era partito per l’Argentina subito dopo avere perso il posto di lavoro. Era ferroviere, soprattutto socialista, non aveva preso la tessera così abbandonò tutti. Il figlio lo seguì ben presto, mi ha lasciata di nuovo. ” Solo dopo quelle parole iniziavo a capire il perché da bambina tu mi portassi nello studio per osservare il mappamondo, lo facevamo girare, pensavo che per caso si fermasse sull’America Latina. Lì, dall’altra parte del mondo batteva il tuo cuore. Eri una moglie felice, una mamma felice, una insegnante di scuola elementare felice. Era la vita che ti era capitata, poco per scelta, molto per comodità. Vita vissuta come quella di tante altre tue coetanee. Gli anni passavano lenti e veloci, tra i tuoi avvicinamenti a casa, i problemi quotidiani dei ragazzi, il cambiamento della scuola. Una lenta stanchezza ti avvolgeva, una malinconia di tanto in tanto ti riportava indietro, tra l’orgoglio di una vita agiata e dignitosa e il dispiacere di non avere avuto il coraggio di scappare insieme a lui. Quando è morto il nonno hai preso la scatola di legno, la scatola dei segreti, mi hai fatto leggere le lettere, vedere le piccole foto in bianco e nero, un orologio senza tic tac, anellini con finte pietre. Era il tuo tesoro. Quello che avevi nascosto a tutti noi per quarant’anni. Mi hai guardata con aria di sfida e mi hai detto “Ho conservato anche i mozziconi delle sigarette che fumava quando era insieme a me”. C’erano anche quelli, nascosti dentro una busta piccola da lettera.
La stanchezza ti era sembrata d’improvviso insopportabile ed avevi deciso di svelare l’ultimo racconto, il segreto di un’antica promessa. Non volevi nascondere più la verità, era il momento di dirla tutta d’un fiato, di colpo. Mi hai cercata più volte, quando sono arrivata, mi hai guardata, mi hai fatto vedere una foto, mi hai detto “E’ tuo nonno, ti somiglia”. Ti ho risposto che non era possibile, che non era mio nonno. Hai preso l’album di foto di famiglia che pazientemente avevamo preparato, hai posato quel volto accanto alla tua immagine. Avevi fretta di spiegarti, anzi di scusarti, così hai iniziato la tua confessione: “E’ tornato, mi ha aspettata fuori dalla scuola con un sacchetto di nespole. Mi ha raccontato di sé, della sua famiglia, della ricchezza recuperata. Mi ha chiesto di andare via. Non potevo scappare, ho sempre avuto paura, lo sai, sono una fifona. Non avrei potuto lasciare la famiglia. Però abbiamo vissuto insieme una settimana. In quel periodo insegnavo lontano da casa, non tornavo se non il sabato. Così è stata una settimana di amore, di pianti, di gioia. Senza fine. E’ nata da quell’amore tua mamma, la mia seconda figlia.” Non ho parlato. Non ti ho detto niente. Ti stavo ascoltando. Hai ripreso tu. “Non sono un’ipocrita, l’apparenza di una vita ti ha tratto in inganno, io ho amato tutti i miei figli allo stesso modo. L’Argentina è lontana. Trovalo, è il tuo viaggio. E’ parte di te. Capirà dal tuo sguardo, è uguale al suo. Capirà e tu non dovrai dire niente a nessuno. Potevo fingere con tutti, ma non con te. Non giudicarci. Nessuno dei due. Se è stato sbagliato, lo è stato da sempre.” Eri nel freddo silenzio, non c’era il tuo volto consolatorio. In punta di piedi, col bagaglio leggero, senza portarmi con te, hai iniziato da sola il tuo ultimo viaggio.
La stanchezza ti era sembrata d’improvviso insopportabile ed avevi deciso di svelare l’ultimo racconto, il segreto di un’antica promessa. Non volevi nascondere più la verità, era il momento di dirla tutta d’un fiato, di colpo. Mi hai cercata più volte, quando sono arrivata, mi hai guardata, mi hai fatto vedere una foto, mi hai detto “E’ tuo nonno, ti somiglia”. Ti ho risposto che non era possibile, che non era mio nonno. Hai preso l’album di foto di famiglia che pazientemente avevamo preparato, hai posato quel volto accanto alla tua immagine. Avevi fretta di spiegarti, anzi di scusarti, così hai iniziato la tua confessione: “E’ tornato, mi ha aspettata fuori dalla scuola con un sacchetto di nespole. Mi ha raccontato di sé, della sua famiglia, della ricchezza recuperata. Mi ha chiesto di andare via. Non potevo scappare, ho sempre avuto paura, lo sai, sono una fifona. Non avrei potuto lasciare la famiglia. Però abbiamo vissuto insieme una settimana. In quel periodo insegnavo lontano da casa, non tornavo se non il sabato. Così è stata una settimana di amore, di pianti, di gioia. Senza fine. E’ nata da quell’amore tua mamma, la mia seconda figlia.” Non ho parlato. Non ti ho detto niente. Ti stavo ascoltando. Hai ripreso tu. “Non sono un’ipocrita, l’apparenza di una vita ti ha tratto in inganno, io ho amato tutti i miei figli allo stesso modo. L’Argentina è lontana. Trovalo, è il tuo viaggio. E’ parte di te. Capirà dal tuo sguardo, è uguale al suo. Capirà e tu non dovrai dire niente a nessuno. Potevo fingere con tutti, ma non con te. Non giudicarci. Nessuno dei due. Se è stato sbagliato, lo è stato da sempre.” Eri nel freddo silenzio, non c’era il tuo volto consolatorio. In punta di piedi, col bagaglio leggero, senza portarmi con te, hai iniziato da sola il tuo ultimo viaggio.
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