RAS AND ME

In Brasile. Lì, in quel Brasile d’Inferno mi avrebbe voluto portare per il nostro viaggio di nozze. Il mio compagno, Ras. Ho telefonato a Teresa e le ho chiesto: “Ma sei sicura che io l’ho davvero conosciuto Ras? Che sia passato dalla mia vita?” “Purtroppo sì” La sua risposta. Cruda come il ventre pieno di farfalle. Il mio ventre quando ascoltavo la sua voce, e quella canzone incisa con i Damnata ad metalla, il suo gruppo. Ras il suo nome d’arte. Sono sicura mi ha chiesto di sposarlo. Due volte. Avrebbe voluto che accadesse in quella piccola chiesa sotto la roccia, dove ascoltavamo la voce del maestrale, accucciati e abbracciati. La memoria di Ras Tafari Diredawa, il ricordo, l’amore in ginocchio, il mio dolore tutto insieme per cementare la voce del passato che mi sconvolge nelle notti solitarie. Non ti fidare, non ti fidare. Va e torna ma non ti ama. Mormoravano le consigliere per mestiere. Un sortilegio quei dodici anni insieme. Era tutto pronto: la Chiesa, gli invitati, il viaggio. Sono sicura che quell’aereo l’ha preso. Solo andata. Solo un posto prenotato. Un unico mistero, quel giorno: il mistero della scomparsa dei settantadue confratelli di una setta. Suicidio di massa? Satanismo? Non ha mai voluto fare l’amore con me! Nessun sospetto. Voleva aspettare. Aspettare un giorno che non è mai arrivato. Posso chiudere gli occhi e io ti vedo Ras. Ti vedo a piedi nudi a Copacabana. Bello come nella foto che ho nel portafoglio. Fermo nei tuoi venticinque anni. Ti amo. Per dispetto.

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