ALESSANDRO PANAGULIS DA INTERVISTA CON LA STORIA, 1974
di Oriana Fallaci
Quel giorno aveva il volto di un Gesù crocifisso dieci volte e sembrava più vecchio dei suoi trentaquattro anni. Sulle sue guance pallide si affondavano già alcune rughe, tra i suoi capelli neri spiccavano già ciuffi bianchi, e i suoi occhi eran due pozze di malinconia. O di rabbia? Anche quando rideva, non credevi al suo ridere. Del resto era un ridere forzato e che durava poco: quanto lo scoppio di una fucilata. Subito le sue labbra tornavano a serrarsi in una smorfia amara e in quella smorfia cercavi invano il ricordo della salute e della gioventù. La salute l’aveva persa, insieme alla gioventù, il momento in cui era stato legato per la prima volta al tavolo delle torture e gli avevano detto: «Ora soffrirai tanto che ti pentirai d’essere nato». Ma capivi subito che non si pentiva d’essere nato: non se n’era mai pentito e non se ne sarebbe mai pentito. Capivi subito che era uno di quegli uomini per cui anche morire diventa una maniera di vivere, tanto spendono bene la vita. Né le sevizie più atroci, né la condanna a morte, né tre notti trascorse in attesa della fucilazione, né il carcere più disumano, cinque anni dentro una cella di cemento di un metro e mezzo per tre, l’avevano piegato. Due giorni prima, uscendo da Boiati con la grazia che Papadopulos aveva concesso insieme all’amnistia per trecento prigionieri politici, non aveva detto una sola parola che gli servisse ad esser lasciato in pace. Anzi aveva dichiarato, sprezzante: «Non l’ho chiesta io, la grazia. Me l’hanno imposta loro. Io son pronto a tornare in prigione anche subito». Infatti chi gli voleva bene temeva per la sua incolumità quanto e più di prima. Fuori del carcere era troppo scomodo pei colonnelli. Le tigri in libertà sono sempre scomode. Alle tigri in libertà si spara. Oppure gli si tende una trappola per richiuderle in gabbia. Quanto a lungo sarebbe rimasto all’aria aperta? Ecco la prima cosa che pensai quel giovedì 23 agosto 1973 vedendo Alessandro Panagulis.
Alessandro Panagulis. Alekos per gli amici e per la polizia. Nato nel 1939 ad Atene da Atena e Basilio Panagulis colonnello dell’esercito e pluridecorato nella guerra dei Balcani, nella prima guerra mondiale, nella guerra contro i turchi in Asia Minore, nella guerra civile fino al 1950. Secondogenito di tre fratelli straordinari, democratici e antifascisti. Fondatore e capo di Resistenza Greca, il movimento che i colonnelli non riuscirono mai a distruggere. Autore dell’attentato che per un pelo, il 13 agosto 1967, non costò la vita a Papadopulos e la fine della Giunta. Per questo lo arrestarono, lo seviziarono, lo condannarono a morte: pena da lui stesso sollecitata in un’apologia che per due ore tenne i giudici col fiato sospeso. «Voi siete i rappresentanti della tirannia e so che mi manderete dinanzi al plotone di esecuzione. Ma so anche che il canto del cigno di ogni vero combattente è l’ultimo singulto dinanzi al plotone di esecuzione.» Quel processo indimenticabile. Non s’era mai visto un accusato trasformarsi in accusatore, così. Giungeva in aula con le mani ammanettate dietro la schiena, i poliziotti gli toglievano le manette e lo serravano in una morsa cieca agguantandolo alle spalle, alle braccia, alla vita, ma lui balzava in piedi lo stesso, con l’indice teso, a gridare il suo sdegno. Non lo giustiziarono per non farne un eroe. E va da sé che lo divenne ugualmente perché morire, a volte, è più facile che vivere come viveva lui. Lo trasportavano da una prigione all’altra dicendo: «Il plotone di esecuzione ti aspetta». Entravano nella sua cella e lo massacravano di botte. E per undici mesi lo tennero ammanettato, giorno e notte, malgrado i polsi gli fossero andati in putrefazione. A periodi, poi, gli impedivano di fumare, di leggere, di avere un foglio e una matita per scrivere le sue poesie. E lui le scriveva lo stesso, su minuscoli fogli di cartavelina, usando il suo sangue per inchiostro. «Un fiammifero per penna / sangue gocciolato in terra per inchiostro / l’involto di una garza dimenticata per foglio / Ma cosa scrivo? / Forse ho solo il tempo per il mio indirizzo / Strano, l’inchiostro s’è coagulato / Vi scrivo da un carcere / in Grecia.» Riusciva anche a mandarle fuori dalla prigione, quelle belle poesie scritte col sangue. Il suo primo libro aveva vinto il Premio Viareggio ed era ormai un poeta riconosciuto, tradotto in più di una lingua, e sul quale si scrivevano saggi, analisi concettose da storia della letteratura. Ma più che un poeta era un simbolo. Il simbolo del coraggio, della dignità, dell’amore per la libertà. E tutto questo mi turbava, ora che me lo trovavo dinanzi. Come si saluta un uomo che è appena uscito da una tomba? Come si parla a un simbolo? E mi mordevo le unghie, nervosa: me ne ricordo perfettamente. Me ne ricordo perché di quel giovedì 23 agosto ricordo tutto. Lo sbarco ad Atene. Il timore di non trovarlo sebbene gli avessi fatto annunciare il mio arrivo. La ricerca di via Aristofanos, nel quartiere di Glifada, dov’era la sua casa: il tassista che finalmente scorge la villetta e si mette a gridare facendosi il segno della croce. Il pomeriggio afoso, i miei vestiti appiccicati al corpo. La folla dei visitatori che gremisce il giardino, la terrazza, ogni angolo della villetta. Gli altri giornalisti, le voci, le spinte. E lui che siede nel mezzo del caos con quel volto di Cristo.
Aveva un’aria molto stanca, anzi esausta. Però appena mi vide si alzò, col balzo di un gatto, e corse ad abbracciarmi come se mi conoscesse da sempre. Se non mi conosceva da sempre, del resto, ci conoscevamo già. Nei periodi in cui gli consentivan di leggere qualche giornale, mi avrebbe narrato, gli avevo fatto compagnia coi miei articoli. E lui mi aveva fatto coraggio col semplice fatto di esistere, essere ciò che era. Così la preoccupazione di dover fronteggiare un simbolo anziché un uomo svanì. Restituii l’abbraccio dicendo «ciao», lui replicò «ciao» e non vi furono altre parole di benvenuto o felicitazione. Semplicemente aggiunsi: «Ho ventiquattr’ore per stare ad Atene e preparar l’intervista. Subito dopo devo partire per Bonn. C’è un angolo dove si possa lavorare tranquilli?». Annuì in silenzio e poi, solcando la folla dei visitatori, mi condusse in una stanza dov’eran molte copie di un mio libro in greco. Oltre a quelle c’era un mazzo di rose rosse che mi aveva mandato fino all’aeroporto e che poi erano tornate indietro perché l’amico incaricato di ricevermi non m’aveva trovato. Commossa, ringraziai bruscamente. Ma lui capì il tono brusco perché, per un attimo, la malinconia gli scomparve dagli occhi e le sue pupille ebbero un lampo di divertimento che mi smarrì di nuovo. Era un lampo che ti faceva intuire una selva di tenerezze e furori in contrasto fra loro, un’anima senza pace. Sarei riuscita a capire quell’uomo?
Cominciammo l’intervista. E immediatamente mi colpì la sua voce che era seducentissima, dal timbro fondo, quasi gutturale. Una voce per convincer la gente. Il tono era autorevole, calmo: il tono di chi è molto sicuro di sé e non ammette repliche a ciò che dice in quanto non ha dubbi su ciò che dice. Parlava, ecco, come un leader. Parlando fumava la pipa che praticamente non staccava mai dalla bocca. Così avresti detto che la sua attenzione era concentrata su quella pipa, non su di te, e questo gli conferiva una certa durezza che intimidiva perché non si trattava di una durezza recente, cioè maturata dagli strazi fisici e morali, bensì di una durezza nata con lui: grazie alla quale aveva potuto vincere gli strazi fisici e morali. Allo stesso tempo era premuroso, gentile, e restavi come smarrito quando, con virata improvvisa, sai la virata di un motoscafo che procede dritto e di colpo si gira per tornare indietro, tanta durezza si rompeva in dolcezza: struggente come il sorriso di un bimbo. Il modo in cui ti versava la birra, ad esempio. Il modo in cui ti toccava una mano per ringraziarti di un’osservazione. Ciò gli cambiava i lineamenti del volto che, non più doloroso, diventava indifeso. Di volto non era bello: con quegli occhi piccoli e strani, quella bocca grande e ancora più strana, quel mento corto, infine quelle cicatrici che lo sciupavano tutto. Alle labbra, agli zigomi. Eppure ben presto ti sembrava quasi bello: di una bellezza assurda, paradossale, e indipendente dalla sua anima bella. No, forse non lo avrei mai capito. Decisi da quel primo incontro che l’uomo era un pozzo di contraddizioni, sorprese, egoismi, generosità, illogicità che avrebbero sempre chiuso un mistero. Ma era anche una fonte infinita di possibilità e un personaggio il cui valore andava oltre quello del personaggio politico. Forse la politica rappresentava solo un momento della sua vita, solo una parte del suo talento. Forse, se non lo avessero ammazzato presto, se non lo avessero rimesso in gabbia, un giorno avremmo sentito parlare di lui per chissà quali altre cose.
Quante ore restammo nella stanza coi libri e coi fiori a parlare? È l’unico particolare che non ricordo. Non ti accorgi del tempo che passa se ascolti ciò che narrava lui. La storia delle torture, anzitutto, l’origine delle sue cicatrici. Ne aveva dappertutto, mi disse. Mi mostrò quelle sulle mani, sui polsi, sulle braccia, sui piedi, sul costato. Qui stavano esattamente dove stanno le ferite di Cristo: all’altezza del cuore. Gliele avevano inflitte alla presenza di Costantino Papadopulos, il fratello di Papadopulos, con un tagliacarte scheggiato. Però me le mostrava con distacco, nessuna autocommiserazione: lo irrigidiva un autocontrollo eccezionale, quasi crudele. Tanto più crudele quando ti accorgevi che i suoi nervi non erano usciti intatti dai cinque anni d’inferno. E questo lo raccontavano i suoi denti quando mordeva la pipa, lo raccontavano i suoi occhi quanto si appannavano in lampi di odio o di muto disprezzo. Pronunciando il nome dei suoi seviziatori, infatti, si isolava in pause impenetrabili e non rispondeva nemmeno a sua madre che entrava chiedendo se volesse ancora una birra o un caffè. Sua madre entrava spesso. Era vecchia, vestita di nero come le vedove che in Grecia non abbandonano il nero, e il suo viso era una ragnatela di rughe profonde come i suoi dolori. Il marito morto di crepacuore mentre Alekos era in prigione. Il figlio maggiore scomparso. Il terzo figlio in prigione. Del resto era stata in prigione anche lei, per quattro mesi e mezzo. Ma nemmeno lei eran riusciti a piegare. Né con le minacce né con i ricatti. In una lettera a un giornale di Londra, una volta aveva scritto dei figli: «Gli alberi muoiono in piedi». Gli alberi erano i suoi figli. Un albero era morto quasi sei anni prima: Giorgio.
Da quasi sei anni nessuno sapeva più nulla di Giorgio, il fratello maggiore che aveva seguito la carriera del padre raggiungendo il grado di capitano. Nell’agosto del 1967 Giorgio aveva rifiutato di restar nell’esercito greco e, come Alekos, aveva disertato. Attraverso il fiume Evros era fuggito in Turchia dove aveva raggiunto Istanbul per cercare asilo presso l’ambasciata italiana. Per nostra vergogna, l’ambasciata italiana gli aveva negato l’asilo: tergiversando sulla necessità di informare il governo turco, poi il governo italiano, poi non si sa chi. Giorgio era fuggito di nuovo, stavolta in Siria, e a Damasco s’era ancora rivolto all’ambasciata italiana che s’era comportata nello stesso modo. Tuttavia un’ambasciata più degna, un’ambasciata scandinava, lo aveva ospitato e qui era rimasto un mese: fino al giorno in cui era uscito per strada e la polizia siriana lo aveva scoperto senza passaporto. Fuggito anche alla polizia siriana, aveva raggiunto il Libano. Dal Libano avrebbe voluto imbarcarsi per l’Italia, ma non lo aveva fatto perché i paesi arabi riconoscevano la Grecia dei colonnelli. Aveva preferito entrare in Israele, paese che con la Grecia dei colonnelli non aveva rapporti diplomatici, per recarsi in Italia imbarcandosi a Haifa. E a Haifa, invece, gli israeliani lo avevano arrestato. Giorgio s’era fidato di loro, aveva detto chi era, e loro lo avevano arrestato: per consegnarlo al governo greco. Non gli avevano dedicato nemmeno un processo. Semplicemente, lo avevano caricato su una nave greca che faceva la spola tra Haifa e il Pireo: l’Anna Maria. E a questo punto si perdevano le sue tracce. Sembra che Giorgio fosse ancora nella cabina prima che la nave entrasse nel tratto di mare compreso tra Egira e il Pireo. Ma, quando la nave s’era avvicinata al porto, la cabina era vuota. Fuggito saltando giù dall’oblò? Scaraventato da qualcuno fuori dall’oblò? Il suo corpo non sarebbe stato mai ritrovato. Ogni tanto il mare restituiva un cadavere, le autorità convocavano Atena per vedere se lo riconoscesse, e Atena rispondeva: «No, non è mio figlio Giorgio».
A una certa ora della notte interrompemmo l’intervista. La folla dei visitatori s’era dispersa e Atena m’aveva offerto ospitalità per la notte. Aveva preparato anche il pranzo, sulla tovaglia migliore. Alekos appariva meno teso, meno solenne, e presto schiuse una porta delle sue infinite sorprese: lasciandosi andare a una conversazione scherzosa. Definiva la sua cella, ad esempio, “la mia villa di Boiati”, e la descriveva come una villa lussuosissima, con piscine aperte e scoperte, campi da golf, cinema privati, scintillanti saloni, uno chef che comprava il caviale fresco in Iran, le odalische che danzavano e lucidavano le manette. In un tal paradiso, una volta, aveva fatto lo sciopero della fame “perché il caviale non era fresco e non era grigio”. E poi, con lo stesso tono, illustrava la sua “arcinota amicizia” con Onassis, Niarcos, Rockefeller, Henry Kissinger, o descriveva i “suoi jet personali”, lo yacht che il giorno avanti aveva “prestato ad Anna d’Inghilterra”. Ed io non credevo ai miei occhi, ai miei orecchi. Possibile che nella tomba di cemento egli fosse riuscito a salvare il suo humour, la capacità di ridere? Possibile, anzi indiscutibile. Però, quando dopocena riprendemmo a parlare per l’intervista, Alekos tornò ad essere serio ed a mordere nervosamente la pipa. Parlammo, stavolta, fino alle tre del mattino e, alle tre e mezzo, caddi esausta sul letto che m’avevano preparato nel soggiorno. Sopra il letto c’era la fotografia di Basilio, nella sua uniforme di colonnello, e la cornice grondava medaglie d’oro, d’argento, di bronzo: testimonianza delle varie campagne combattute fino al 1950. Accanto al letto, invece, una fotografia di Alekos quando era studente di ingegneria al Politecnico e membro del Comitato centrale della Federazione giovanile del partito «Unione di Centro». Un visino intelligentissimo e arguto, a quel tempo privo di baffi, che non mi aiutava a penetrare un mistero. Allora ricordai d’aver visto, nella stanza accanto, le fotografie dei due fratelli bambini. Mi alzai e le studiai. Quella di Giorgio raccontava un bambino elegante e compunto, educatamente seduto su un velluto rosso. Quella di Alekos invece mostrava un tigrotto dal cipiglio arrabbiato e che, ritto sul velluto rosso, in un annuncio di indipendenze anarchiche, sembrava dire: “No e poi no! Seduto su quel coso io non ci sto!”. Il costumino di maglia pendeva sbrindellato a dimostrare che del suo aspetto esteriore lui se ne fregava dunque era inutile che la mamma lo rimproverasse, lo pregasse, lui faceva lo stesso ciò che voleva. E, quasi a dimostrare ogni rifiuto ai consigli, agli ordini, agli interventi altrui, la manina destra si appoggiava, con orgoglio e provocazione, sul fianco; la sinistra reggeva i pantaloncini nel punto in cui un bottone era schizzato via. Quanto rimasi a studiare quelle fotografie? Questo, davvero non lo ricordo. Però ricordo che a un certo punto la mia attenzione fu attratta da un’altra cosa: un oggetto rettangolare e coperto di polvere. E lo presi in mano con la sensazione di penetrare un segreto, e scoprii che era una Bibbia del seicento, con un documento che ne attribuiva la proprietà ad Alekos Panagulis. Ma era un documento vecchio di trecent’anni e questo Alekos era un bisnonno che aveva combattuto come guerrigliero contro i turchi. Avrei saputo più tardi che, dal 1600 al 1825, la famiglia Panagulis non aveva fornito che eroi. Alcuni si chiamavano Jorgos, cioè Giorgio, come il giovane Jorgos che era morto nella battaglia di Faliero nel 1823. Ma la maggior parte di essi si chiamava Alekos.
L’indomani partii per Bonn. E va da sé che non fu una partenza definitiva. Accompagnandomi all’aeroporto, Alekos m’aveva fatto promettere che sarei tornata e, pochi giorni dopo, quando lui era ricoverato all’ospedale, tornai: scoprendo cose che aiutavano un poco a diradare i segreti della sua inafferrabile personalità. La lunga poesia, anzitutto, che m’avrebbe dedicato. Si intitolava Viaggio e narrava di una nave partita per un viaggio senza soste, una nave che non cedeva mai alla tentazione o al bisogno di attraccare in un porto, di avvicinarsi a una riva, di gettare l’àncora insomma. La ciurma lo reclamava, a volte lo implorava, ma il comandante le resisteva come alla tempesta: continuando a inseguire una luce. La nave era lui, Alekos. Ed anche il comandante era lui, anche la ciurma. Il viaggio era la sua vita. Un viaggio che si sarebbe concluso soltanto con la morte perché l’àncora non sarebbe mai stata gettata. Né l’àncora degli affetti, né l’àncora dei desideri, né l’àncora di un meritato riposo. E nessun ragionamento, nessuna lusinga, nessuna minaccia avrebbe potuto indurlo al contrario. Così, se credevi a quella nave, se tenevi a quella nave, non dovevi cercar di trattenerla, fermarla col miraggio di sponde verdi, paradisi terrestri. Dovevi lasciarla andare per il pazzo viaggio che s’era scelto e che, nella selva delle sue contraddizioni, era il punto fermo di una coerenza assoluta. «Anche Ulisse alla fine si riposa. Raggiunge Itaca e si riposa» osservai dopo avere letto la poesia. E lui mi rispose: «Povero Ulisse». Poi mi porse un’altra poesia che incominciava così: «Quando sbarcasti a Itaca / quale infelicità avrai provato, Ulisse / Se altra vita avevi dinanzi / perché arrivare tanto presto?». Credo di essergli diventata veramente amica quel giorno, ascoltandolo all’ospedale. Infatti mi recai altre volte ad Atene e pazienza se, ogni volta, le autorità greche erano meno contente. Pur non osando negarmi il permesso di entrata, la polizia di frontiera riempiva per me fogli che non riempiva mai per nessuno e, durante il mio soggiorno ad Atene, si occupavano scrupolosamente della mia persona. Cosa non difficile, visto che abitavo nella casa di via Aristofanos dove il telefono era controllato e dove quattro poliziotti in uniforme, chissà quanti altri in borghese, sorvegliavano ogni porta, ogni finestra, la stessa strada, ventiquattro ore su ventiquattro.
Psicologicamente, era come se Alekos fosse ancora in prigione ed io ci fossi entrata con lui. Una volta mi accompagnò a Creta, per cinque giorni. E per cinque giorni fummo costantemente seguiti, spiati, provocati. Ad Heraclion, dov’eravamo andati per visitare Cnosso, le automobili della polizia ci tamponavano a mezzo metro di distanza. Entravamo in un ristorante a mangiare e loro si piazzavano lì, ad aspettarci. Entravamo in un museo e loro si piazzavano lì, ad aspettarci. Spesso, poi, ce le vedevamo venire incontro dalla direzione opposta perché eran forniti di radio e si davano il cambio. Un incubo. All’aeroporto di Xania venni insultata da un agente in borghese. Sull’aereo che ci riportava ad Atene fummo relegati negli ultimi due sedili e tenuti sotto controllo per l’intero viaggio. Di nuovo ad Atene, non potevamo permetterci il piacere di una cena al Pireo senza che un poliziotto ci raggiungesse, ben presto, per starci alle calcagna. Ci tormentarono perfino ai funerali di un ministro democratico morto per infarto cardiaco e, inutile dirlo, Papadopulos non mi concesse mai l’intervista che secondo l’ambasciata greca di Roma sembrava disposto a darmi. Peccato. Sarebbe stato divertente chiedere al signor Papadopulos cosa intendeva per democrazia. Ed anche per amnistia. Sarebbe stato ancor più divertente narrargli che, ovunque andasse, Alekos era accolto come un eroe nazionale. La gente lo fermava per strada abbracciandolo e magari tentando di baciargli la mano. I tassisti lo facevan salire anche nei punti proibiti. Gli automobilisti fermavano il traffico per salutarlo. E non di rado, nei bar, non volevano che pagasse il conto. Insomma erano tutti per lui e con lui, solo chi era al servizio dei colonnelli era contro di lui. Ed io seguivo lo straordinario fenomeno comprendendo finalmente un poco la difficile creatura che ne era oggetto. Intuendone meglio, ad esempio, i disgusti e le infelicità, la sete di una pace che non sarebbe mai giunta e che si manifestava attraverso esplosioni di collera disperata e disperante, o inutili audacie, o telefonate rabbiose all’uomo forte del regime, Joannidis, per sfidarlo ad arrestarlo di nuovo. Oppure seguendone le astuzie da Ulisse, le fulminanti intuizioni da Ulisse cui assomigliava sempre di più in ogni senso. E le lacrime che gli riempivano gli occhi quando guardava l’Acropoli, simbolo per lui di tutto ciò in cui credeva. E i suoi silenzi cupi. E gli slanci di allegria che lo scuotevano tutto in una gioventù ritrovata per qualche ora, per qualche minuto. E le improvvise risate di fanciullo, gli imprevedibili scherzi subito cancellati da quei suoi voltafaccia d’umore. E il pudore esagerato, anzi puritano, che opponeva alle donne quando gli si offrivano con biglietti amorosi, inviti aperti, strattagemmi volpini. Del resto, sia delle sue avventure passate come dei suoi sentimenti presenti non confidava mai nulla a nessuno: “Un uomo serio non lo fa”. Timido, testardo, orgoglioso, era mille persone dentro una persona sola che non potevi mai rinunciare ad assolvere. Che gioia udirlo dire, a proposito del suo attentato: «Io non volevo uccidere un uomo. Io non sono capace di uccidere un uomo. Io volevo uccidere un tiranno».
Nel frattempo, egli aveva chiesto il passaporto. Ma nemmeno ottenere i documenti necessari alla richiesta gli era stato facile. A qualsiasi ufficio si rivolgesse trovava ostacoli sordi, kafkiani. Presso il comune di Glifada, ad esempio, non risultava che fosse nato. Improvvisamente il suo nome mancava dai registri. C’era il nome di Atena e il suo no. Lui ne rideva, con malcelata amarezza: «Non sono nato, vedi. Non sono mai nato». Ma una mattina tornò saltando di gioia e: «Sono nato! Sono nato!». Chissà perché avevan cambiato idea. Sette giorni dopo, era un lunedì, gli dettero il passaporto: valido per un solo viaggio di andata e ritorno. E tre ore più tardi partimmo, su un aereo dell’Alitalia, diretti a Roma. Ma nemmeno la partenza fu una partenza civile. Superata la dogana, la polizia di frontiera, la perquisizione, scendemmo nella sala d’attesa e immediatamente una nuvola di poliziotti in borghese ci circondò: provocatoria. Poi il volo venne chiamato e raggiungemmo la porta numero due. Porgemmo le nostre carte d’imbarco. Ci spinsero indietro. «Perché?» chiese Alekos. Silenzio. «Abbiamo un passaporto regolare e una carta di imbarco regolare. E abbiamo completato tutte le formalità.» Silenzio. Tutti gli altri passeggeri eran passati, saliti sull’autobus, scesi dall’autobus, entrati a bordo dell’aereo. L’aereo non aspettava che noi. E noi non potevamo avvicinarci nemmeno alla scaletta. Quel che è peggio, non ci veniva data alcuna spiegazione, né veniva data agli impiegati dell’Alitalia che ci scortavano come VIP. Dieci minuti, quindici, venti, venticinque, trenta... Non ho ancora capito perché, trascorsi trenta minuti, ci permisero di andare a bordo. Forse avevano telefonato al capo della Pubblica Sicurezza. Forse costui aveva informato Papadopulos e Papadopulos aveva deciso che non conveniva, anche internazionalmente, commetter l’errore di impedirgli la partenza all’ultimo momento. Ma non ho capito un’altra cosa: non ho capito perché, chiusi gli sportelli, l’aereo fu bloccato per altri quaranta minuti lì sulla pista. Non c’erano problemi con la torre di controllo quel giorno. C’era soltanto un grande imbarazzo a bordo. Un imbarazzo che sparì, tuttavia, quando fummo in cielo. Il cielo più azzurro del mondo.
fonte:http://www.oriana-fallaci.com/panagulis/intervista.html
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